Pubblicità
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Autore: Adriano Zanacchi
INDICE
1. Introduzione
2. La p. commerciale
2.1. Definizione 2.2. Aspetti economici 2.3. Teorie 2.4. Dalla strategia di marketing alla campagna pubblicitaria 2.5. Il linguaggio pubblicitario3. P. e media
3.1. I media come strumenti pubblicitari 3.2. La p. come finanziamento dei media 3.3. Influenze della p. sull’autonomia dei media4. Aspetti socioculturali ed etici
4.1. L’influenza ideologica 4.2. P. e minori 4.3. Etica e deontologia5. La p. non commerciale
5.1. La p. religiosa
1. Introduzione
La p. è una delle più tipiche forme di comunicazione persuasiva, che mirano cioè deliberatamente a influenzare conoscenze, valutazioni, atteggiamenti, comportamenti in determinate aree dell’attività umana. Il suo principale campo di applicazione è sempre stato quello commerciale (al quale generalmente ci si riferisce quando il termine non viene seguito da alcuna specificazione); ma da tempo si sono notevolmente sviluppate anche varie forme di p. non commerciale: sociale, pubblica, politica, religiosa, ecc.Strettamente connesso alla sua natura persuasiva è il linguaggio che essa adotta: fatto di messaggi brevi, semplici, sintetici, attraenti, suggestivi, enfatici, eufemici ed euforici, destinati a una ripetizione sistematica. Diffusi a pagamento attraverso tutti i canali utilizzabili, tali messaggi non mirano a suscitare dubbi, ma a creare certezze, rivolgendosi non tanto alla sfera razionale degli individui, quanto a quella emotiva.
L’etimologia del termine, derivato dal latino publicare (originariamente ‘rendere di proprietà o di uso pubblico’, poi ‘esporre al pubblico’, ‘svelare’, ‘rendere noto’), appare dunque insufficiente a rivelarne il significato attuale, in cui l’aspetto fortemente persuasivo e non meramente referenziale risulta prevalente (altrettanto può dirsi per i termini usati nelle principali lingue straniere, da réclame a advertising, con esclusione del tedesco Werbung, derivante dal verbo werben che non significa soltanto ‘far conoscere’, ‘pubblicizzare’, ma anche ‘attirare’, ‘corteggiare’).
La diffusione dei messaggi pubblicitari si caratterizza come fenomeno tendenzialmente pervasivo e intrusivo, con forzature che spesso danno luogo a reazioni di fastidio e anche di avversione e di rifiuto, nonostante le forme spettacolari e divertenti di molti annunci.
Oltre che parassitaria in termini diffusivi (fino a rendere veicoli dei propri messaggi anche le persone), la p. lo è anche nei contenuti dei suoi messaggi che, nel loro intento di attirare, di emozionare, di convincere, di indurre al consumo, attingono al patrimonio letterario, artistico, musicale, cavalcando mode, tic, avvenimenti, coinvolgendo personaggi e storie attuali o del passato. Non già proponendosi quale ‘specchio della realtà’ (come qualcuno tende ad affermare), ma selezionandone determinati aspetti, spesso deformandoli: proposti e riproposti sistematicamente, questi finiscono per diventare stereotipi e per influenzare la stessa costruzione sociale della realtà.
Dunque uno "specchio distorto", descritto da un esperto di marketing, Richard W. Pollay, in uno studio ormai classico sulle modalità di influenza extraeconomica della p., il cui impatto, lungi dal verificarsi unicamente sul piano commerciale, finisce appunto per invadere altri campi, per incidere sulla mentalità, sull’educazione, sulla cultura.
La diffusione dei messaggi pubblicitari avviene prevalentemente attraverso i mezzi di comunicazione, di massa e non, a vantaggio dei quali si traduce in autentico finanziamento la spesa che le imprese sostengono per l’acquisto degli spazi. Ciò viene sovente invocato come grande merito sociale della p. da parte del mondo imprenditoriale e delle agenzie specializzate: si definisce così la p. come fonte indispensabile della libertà dell’informazione dai condizionamenti del potere politico. In realtà, la situazione di scambio, fattasi sempre meno equilibrata a sfavore dei media, vede oggi la p. come causa di orientamento editoriale, che provoca fenomeni di autocensura (trattamento dell’informazione subordinato all’esigenza di acquisire o di non perdere contratti pubblicitari) e anche di influenza diretta sulla gestione dei media (definizione dei palinsesti televisivi, scelta delle trasmissioni in funzione delle pressioni esercitate dagli sponsor, ecc.).
La p. si presenta quindi come un fenomeno complesso: essa nasce da esigenze soprattutto commerciali, certamente legittime, che ne fanno un importante strumento di sviluppo delle imprese; ma i suoi messaggi finiscono per invadere terreni altri, non soltanto per la loro ubiquità, ma anche per i caratteri del suo linguaggio, per i contenuti che propone nei suoi processi di cattura dell’attenzione, di provocazione dei sentimenti, di innesco motivazionale, per i condizionamenti che esercita sui mezzi che ne diffondono i messaggi stessi.
Da questa complessità deriva la necessità di conoscerne i diversi aspetti, per valutarne la presenza sia nella realtà economica, sia, più ampiamente, nella gestione dei media e nella vita individuale e sociale.
È appena il caso di soggiungere che viene qui considerata una pratica di comunicazione ben definita e che si esclude quindi dalla trattazione quel poco o quel tanto di pubblicitario che assumono molti fenomeni in misura crescente: dalla moda allo spettacolo, dal giornalismo alla politica. Fino a giustificare l’affermazione che, ormai, "tutto è pubblicità".
2. La p. commerciale
2.1. Definizione.Nella sua forma più diffusa, la p. costituisce una funzione dell’impresa a favore della quale esercita la propria capacità di influenzare, orientandola in un senso ben determinato, la domanda di beni e di servizi. Come tale essa si differenzia non solo dalle forme di p. non commerciale (vedi 5.), ma anche secondo un orientamento che appare sempre più condiviso dalla propaganda, le cui applicazioni riguardano l’ambito ideologico-politico.
In sede pratica e anche teorica, la terminologia non è tuttavia pacifica, né in Italia né altrove. Nel classico testo di marketing di P. Kotler, ad esempio, si intende per propaganda il risultato di attività di relazioni pubbliche conseguito senza alcun pagamento per l’acquisto di spazi sui media. In molti Paesi dell’area linguistica ispano-portoghese, poi, il termine ‘propaganda’ viene usato indifferentemente al posto di publicidad (spagnolo) e publicidade (portoghese). Siamo di fronte, d’altra parte, a forme di comunicazione che usano tecniche e mezzi sostanzialmente simili. Si può tuttavia osservare che a favore della distinzione tra p. (soprattutto commerciale) e propaganda si colloca essenzialmente il tipo di coinvolgimento al quale esse tendono, che appare totalizzante nella propaganda, le cui espressioni estreme sono state poste in essere dai regimi di stampo comunista e nazifascista (da cui una perdurante e forte connotazione negativa del termine).
Per p. commerciale si intende dunque la funzione del marketing che ha come obiettivo finale quello di concorrere al raggiungimento della ‘missione’ aziendale: una forma di comunicazione impersonale (cioè rivolta a più individui), diffusa attraverso qualsiasi mezzo da soggetti economici identificabili, che tende in modo intenzionale e sistematico a influenzare sia gli atteggiamenti e le scelte riguardanti il consumo di beni e l’utilizzazione di servizi, sia l’immagine delle imprese che li producono, li commercializzano o li esercitano.
Insieme al prodotto, al suo prezzo, alle modalità di distribuzione, alle iniziative di promozione, la p. costituisce una delle ‘leve’ del marketing mix, cioè di quella combinazione di variabili che le imprese decidono di adottare per agire con efficacia sul mercato.
2.2. Aspetti economici.
Come componente del marketing, la p. moderna presenta aspetti ben lontani dalle sue forme primitive, che risalgono alle prime attività di scambio tra gli uomini.
La nascita della p. moderna è strettamente legata all’avvento del sistema produttivo industriale e alle grandi innovazioni strutturali che hanno modificato radicalmente l’assetto economico a partire dalla seconda metà del sec. XIX. Produzione e vendita di massa obbligano le aziende a fare ricorso alla p. per raggiungere i consumatori, sempre più distanti dai luoghi di produzione, per far loro conoscere i prodotti, per creare un mercato di proporzioni analoghe ai volumi produttivi e orientarlo attraverso una serie di interventi tra i quali, appunto, la comunicazione.
Strumenti ideali al servizio delle esigenze di comunicazione delle imprese sono i mass media, il cui prodigioso sviluppo è strettamente connesso agli stessi fattori da cui è scaturito il nuovo volto dell’economia moderna. La stampa, in tutte le sue forme, il cinema, la radio, la televisione si affermano ben presto anche come veicoli pubblicitari, dando vita a un intreccio sempre più stretto tra le loro funzioni primarie informativa, culturale, ricreativa e la funzione commerciale. Le prime forme documentabili di inserzione pubblicitaria sulla stampa risalgono al 1630, con la creazione a Parigi, da parte di Théophraste Renaudot, del Bureau d’adresse, la prima agenzia di piccoli annunci. Lo stesso Renaudot incominciò poi a ospitare annunci pubblicitari su La Gazette de France, da lui fondata nel 1631, a partire da uno dei primi numeri. Ma è dal momento in cui la comunicazione di massa si afferma come tale che la p. assume il suo volto moderno, diventandone una componente ormai indissolubile, quale strumento in grado di contribuire con grande efficacia alla creazione della domanda di massa. Anche i cosiddetti new media sono ormai stabilmente inseriti nei piani-media delle imprese e delle agenzie pubblicitarie, spesso con l’intento di stabilire un rapporto interattivo con i consumatori.
Appare quindi evidente la fondamentale funzione economica della p. nella vita delle imprese: integrarne l’attività creando un collegamento efficace col mondo del consumo, capace di far conoscere ciò che esse offrono sul mercato e di stimolare quantità e continuità della domanda in rapporto alle loro capacità produttive.
Pur permanendo difficile l’analisi del valore economico degli investimenti in p., anche per l’estrema variabilità delle situazioni di mercato, la sua utilità nell’attività complessivamente svolta dalle imprese appare incontestabile e viene costantemente confermata dall’entità degli investimenti stessi.
Un aspetto fondamentale del ruolo svolto dalla p., al di là di quello meramente informativo, è costituito dal contributo che essa fornisce all’affermazione della marca. In un mercato vasto e anonimo, sempre più lontano dai produttori, in cui la differenziazione oggettiva tra i prodotti tende ad attenuarsi se non a scomparire, la marca diventa un elemento vitale di collegamento tra chi produce e chi acquista. Essa serve a indicare (e a garantire) la provenienza del prodotto da una determinata azienda, a offrire al consumatore un riferimento costante per individuare e riconoscere i prodotti sui punti di vendita, sulla base di ciò che la pubblicità gli comunica in termini obiettivi (‘valore d’uso’) e psicologici (‘valore aggiunto’, ‘significato simbolico’). Costruendo (o contribuendo a costruire) la marca, la p. diventa soprattutto strumento di differenziazione dei prodotti e, in tal modo, di orientamento della domanda, capace di instaurare un rapporto di fedeltà da parte dei consumatori.
È soprattutto per questa capacità che la p. viene considerata come un investimento (e non come una spesa corrente) in quanto fonte di un ‘potere di mercato’ che può tradursi in una ‘barriera all’entrata’ sul mercato da parte di altre imprese o di altri prodotti. Quale fattore di differenziazione del prodotto e quindi, in misura più o meno rilevante, monopolistico, la p. può anche esercitare effetti distorsivi sulla determinazione del prezzo dei prodotti a danno dei consumatori. È vero infatti che, in quanto promuove un allargamento del mercato dei prodotti (maggiore quantità di unità di prodotto vendute, maggiore rapidità di consumo), essa contribuisce a realizzare le cosiddette ‘economie di scala’ (diminuzione del costo unitario del prodotto); non è altrettanto vero, però, che porti necessariamente a una riduzione dei prezzi al consumo. Proprio la condizione monopolistica determinata grazie alla p. consente infatti all’impresa di aumentare il proprio margine di guadagno susseguente al minor costo unitario del prodotto senza trasferire alcun vantaggio ai consumatori (o trasferendolo solo in parte). Solo nel caso in cui la p. si configura come strumento concorrenziale può produrre un aumento dell’elasticità della domanda e comportare il ricorso a una riduzione di prezzo, con evidente vantaggio per i consumatori.
Quanto alla contrapposizione tra pubblicità informativa (o razionale) e combattiva (o fondata sulla suggestione) la prima giudicata utile e legittima, la seconda additata come spreco sociale dagli economisti classici si può dire che abbia perso oggi gran parte del suo significato. La p., in effetti, è sempre persuasiva, tende sempre a esercitare una pressione psicologica sui consumatori attuali o potenziali per spingerli ad agire in un senso predeterminato. Ciò non toglie che si levino spesso sul fronte della tutela dei consumatori le voci di chi invoca un maggior contenuto informativo dei messaggi pubblicitari rispetto alle loro cariche suggestive. E, del resto, le imprese stesse hanno più volte manifestato l’orientamento a privilegiare, nei loro messaggi commerciali, i prodotti rispetto all’immaginario. Ma è pur sempre l’appello emotivo che prevale nella tecnica pubblicitaria, poiché si riconosce la sua superiorità persuasiva rispetto ai contenuti informativi dei messaggi, anche se permane una difficoltà di fondo nella valutazione degli effetti dovuti alla p. (vedi 2.3.).
Un contributo all’incremento dell’informazione potrebbe derivare dal ricorso alla p. comparativa, legittimata dal Decreto Legislativo 25.2.2000, n. 67, che ha recepito in Italia la Direttiva europea con la quale è stata aperta la strada alla p. "che identifica in modo esplicito o implicito un concorrente o beni o servizi offerti da un concorrente"; dopo una lunga serie di discussioni, il provvedimento consente il confronto anche diretto, purché venga osservata una serie di condizioni rigorose, in particolare l’obbligo di effettuare la comparazione tra caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative. Di fatto, il ricorso a questa forma di confronto commerciale non è stato sinora frequente e, in alcuni casi, ha dato luogo a contese anche aspre tra le imprese coinvolte.
Non minori difficoltà si incontrano nell’analisi dei risultati degli investimenti pubblicitari in termini macroeconomici. Essi sono infatti da porre in relazione con il grado di sviluppo e con le complesse strutture di mercato dei diversi Paesi e dei differenti comparti produttivi, oltre che con l’andamento economico generale, nonché con fattori di natura extraeconomica (quali sono, ad esempio, gli stili di vita dei consumatori).
I dati relativi agli investimenti attestano che le imprese si dimostrano convinte degli effetti positivi della p., sia pure con un andamento che, soprattutto nei periodi di crisi economica, subisce flessioni anche notevoli, come è accaduto più volte in Italia, particolarmente in rapporto al grande sviluppo registrato nel periodo 1978-1984, benché si faccia strada l’idea di una utilità della p. in funzione anticiclica, per rivitalizzare i consumi nei periodi di ristagno e di riduzione (vedi tabella).
Tavola 1 - Investimenti pubblicitari in Italia dal 1975 al 2000 (cifre in miliardi di lire)
1975 | 1980 | 1985 | 1990 | 1991 | 1992 | 1993 | 1994 | 1995 | 1996 | 1997 | 1998 | 1999 | 2000 | |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
Quotidiani | 120 | 359 | 860 | 2.025 | 2.126 | 2.270 | 2.110 | 2.131 | 2.240 | 2.240 | 2.540 | 2.600 | 2.890 | 3.295 |
Periodici | 124 | 358 | 740 | 1.470 | 1.499 | 1.590 | 1.447 | 1.346 | 1.400 | 1.445 | 1.490 | 1.937 | 2.130 | 2.510 |
TOTALE STAMPA | 224 | 717 | 1.600 | 3.495 | 3.625 | 3.860 | 3.557 | 3.477 | 3.640 | 3.845 | 4.030 | 4.537 | 5.020 | 5.805 |
TV Rai | 61 | 148 | 609 | 1.143 | 1.273 | 1.425 | 1.396 | 1.493 | 1.570 | 1.700 | 1.870 | 2.155 | 2.300 | 2.700 |
TV Private | - | 185 | 1.193 | 2.696 | 3.251 | 3.638 | 3.669 | 3.673 | 3.890 | 4.155 | 4.600 | 4.715 | 5.200 | 5.690 |
TOTALE TV | 64 | 333 | 1.887 | 4.031 | 4.524 | 5.063 | 5.065 | 5.166 | 5.460 | 5.855 | 6.470 | 6.830 | 7.500 | 8.390 |
Radio Rai | 34 | 45 | 61 | 114 | 121 | 128 | 122 | 123 | 150 | 175 | 196 | 200 | 220 | 240 |
Radio private | 11 | 41 | 84 | 160 | 171 | 181 | 184 | 189 | 245 | 270 | 324 | 520 | 620 | 720 |
TOTALE RADIO | 37 | 86 | 145 | 274 | 292 | 309 | 306 | 312 | 395 | 445 | 520 | 720 | 840 | 960 |
CINEMA | 17 | 24 | 7 | 19 | 20 | 21 | 22 | 22 | 24 | 25 | 30 | 70 | 80 | 90 |
AFFISSIONI | 32 | 85 | 200 | 400 | 415 | 420 | 350 | 315 | 325 | 345 | 400 | 630 | 700 | 800 |
TOTALE GENERALE | 394 | 1.245 | 3.839 | 8.219 | 8.876 | 9.673 | 9.300 | 9.292 | 9.844 | 10.515 | 11.450 | 12.786 | 14.140 | 16.045 |
Elaborazione su dati UPA
Tavola 2 - Investimenti pubblicitari in Italia dal 2001 al 2010 (cifre in milioni di euro correnti)
2001 | 2002 | 2003 | 2004 | 2005 | 2006 | 2007 | 2008 | 2009 | 2010 | |
---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|---|
Quotidiani (1) | 1.894 | 1.728 | 1.678 | 1.720 | 1.769 | 1.716 | 1.782 | 1.676 | 1.411 | 1.382 |
Periodici | 1.254 | 1.153 | 1.165 | 1.171 | 1.222 | 1.296 | 1.328 | 1.231 | 877 | 829 |
TOTALE STAMPA | 3.148 | 2.881 | 2.843 | 2.891 | 2.992 | 3.012 | 3.111 | 3.047 | 2.391 | 2.289 |
TOTALE TV | 3.932 | 3.929 | 4.123 | 4.551 | 4.668 | 4.598 | 4.653 | 4.851 | 4.358 | 4.619 |
TOTALE RADIO | 312 | 283 | 328 | 400 | 408 | 444 | 476 | 472 | 436 | 469 |
AFFISSIONI | 205 | 181 | 187 | 192 | 198 | 196 | 233 | 227 | 135 | 136 |
CINEMA | 73 | 72 | 82 | 90 | 83 | 76 | 69 | 58 | 55 | 62 |
INTERNET | - | - | - | - | 137 | 197 | 281 | 556 | 302 | 362 |
TOTALE GENERALE | 7.672 | 7.348 | 7.566 | 8.125 | 8.488 | 8.522 | 8.834 | 9.830 | 8.308 | 8.623 |
(1) Esclusa Free/Pay Press |
Elaborazione su dati Nielsen/Aeranti
La tabella mostra lo sviluppo degli investimenti in Italia nei cosiddetti mezzi ‘classici’ della p. (cioè stampa, televisione, radio, cinema, pubblicità esterna e, ormai da tempo, internet). Tali mezzi non esauriscono, tuttavia, le forme di comunicazione delle imprese, che comprendono anche le sponsorizzazioni, le relazioni pubbliche, il direct mail (o direct response), le promozioni (che a stretto rigore non sono forme di comunicazione, ma incentivazioni economiche all’acquisto) e altre iniziative minori (come fiere, mostre, ecc.). Tutte queste attività classificate below the line rispetto a una linea di demarcazione resa peraltro obsoleta da una concezione ‘integrata’ della comunicazione d’impresa hanno fatto registrare forti aumenti negli ultimi anni, superiori a quelli relativi alle forme ‘classiche’ (o above the line). Complessivamente si calcola che le imprese italiane investano in queste forme di comunicazione un importo pari a quello relativo alla pubblicità "classica". A tali importi si devono poi aggiungere i costi di realizzazione (ad esempio la produzione degli spot televisivi) e le spese di ricerca.
Il volume degli investimenti pubblicitari è valutabile nel suo insieme non solo come significativo indice degli orientamenti delle imprese e dell’importanza che esse attribuiscono alla comunicazione, ma anche quale indicatore del quadro economico complessivo di un Paese, prendendo a riferimento il suo rapporto con il PIL (Prodotto Interno Lordo). In Italia tale rapporto è passato dallo 0,30 del 1970 allo 0,32 del 1980, per giungere allo 0,63 del 1990, allo 0,74 nel 2000, ma scendendo successivamente al di sotto dello 0,70. Si tratta di un indicatore che attesta, secondo gli osservatori, un ritardo del nostro Paese rispetto a realtà europee di analoghe dimensioni e caratteristiche economiche.
Il quadro degli aspetti economici della p. verrà completato più avanti (vedi 3.2.) in relazione al ruolo che gli investimenti pubblicitari assumono nel finanziamento dei mass media.
2.3. Teorie.
L’accertamento dell’influenza diretta della p. sulle vendite risulta possibile solo in determinate circostanze, quando cioè tutte le altre variabili in gioco restano immutate. Nella maggior parte dei casi, quindi, il criterio di valutazione dell’efficacia della p. deve essere ricercato non già sulla base di un risultato immediatamente corrispondente a un comportamento come l’atto d’acquisto, bensì con riferimento a uno stadio che può precederlo, come la conoscenza o la notorietà di un prodotto o di un’impresa, ovvero l’atteggiamento che la p. è riuscita a creare nei loro confronti. Nel classico testo di Rosser Reeves si avverte che "si possono commettere molti errori grossolani valutando una campagna sempre e solo dalle vendite".
Vari studiosi e pratici hanno formulato ‘teorie’ o ‘modelli’ volti a spiegare il processo di azione della p. e, di conseguenza, a indirizzare l’impostazione del lavoro pubblicitario. La prima e più nota di queste teorie prende il nome di AIDA, dalle iniziali di quattro parole che indicano altrettante fasi essenziali del processo che deve essere promosso attraverso la p.: Attenzione, Interesse, Desiderio, Azione.
Questa, come altre teorie più complesse successivamente proposte, non può certo essere considerata come una sorta di spiegazione esauriente o di istruzione per l’uso valida per tutti i prodotti, nei confronti di tutti i possibili destinatari, in tutte le circostanze, in qualsiasi situazione di mercato. In generale, si può ritenere che teorie e modelli siano in grado di aiutare l’impostazione di campagne per prodotti di largo consumo, pur senza offrire sicurezza di risultati, nell’impossibilità di ricondurre sotto una legge unica le modalità di azione della p.
Tutte le ipotesi proposte attingono ai risultati degli studi sulla persuasione, della quale la p. costituisce la forma più diffusa. Tali studi mettono generalmente in luce che qualsiasi iniziativa persuasiva deve essere considerata entro un quadro complessivo in cui intervengono, insieme allo stimolo persuasorio considerato, molti altri fattori, ivi compresa la reazione dei destinatari a tale stimolo; e che, in particolare, è molto più difficile cambiare i comportamenti degli individui che non i loro atteggiamenti. Agire sugli atteggiamenti, fin dal loro livello iniziale, costituito dalla conoscenza, diventa così l’obiettivo principale della comunicazione persuasiva, nella presunzione che essi possano costituire premesse di comportamenti conformi (Kapferer).
Superata, ormai da tempo, l’idea dell’onnipotenza della p., si è fatta strada l’esigenza di considerare l’obiettivo possibile che, di volta in volta, la p. può proporsi. Si tratta di un obiettivo che deve collocarsi sulla scala che va dalla semplice conoscenza, alla notorietà, all’atteggiamento favorevole, al comportamento concreto.
Alcune teorie hanno identificato nel ricordo il risultato fondamentale da conseguire attraverso la p. Altre, invece, hanno cercato di individuare quale possa essere il fattore essenziale sul quale costruire i messaggi: ad esempio, uno dei più famosi copywriters del passato, Claude C. Hopkins, ha affermato che la p. deve essere caratterizzata da un solo argomento di vendita (facendo leva su tale selling point si elimina il pericolo della dispersione e si concentra lo sforzo persuasorio su una sola proposta di vendita, su un unico punto di riferimento che il consumatore finisce per ricordare e fare proprio). È nata così la teoria della reason why, che si deve appunto a Hopkins, basata su un approccio essenzialmente razionale: bisogna indicare chiaramente al consumatore la ragione per la quale egli deve utilizzare il prodotto: una sola ragione, capace di convincerlo, senza distrarlo con altre argomentazioni.
Le intuizioni di Hopkins sono state successivamente sviluppate da altri esponenti della pratica pubblicitaria. In particolare si deve a Reeves la nota e contestata formula dell’Unique Selling Proposition (USP), secondo la quale la p. deve proporre un vantaggio unico, concreto, capace di caratterizzare in modo esclusivo il prodotto e l’offerta pubblicitaria Consumer benefit). Anche il modello, altrettanto noto e contestato, della Copy strategy presenta un approccio di tipo razionale, basato sull’argomentazione, sul sostegno delle promesse fondato su fatti, prove, dimostrazioni. Pur non rinunciando all’apporto creativo e dell’emotività, questo modello (adottato da molte grandi aziende e agenzie pubblicitarie) privilegia l’appello alla logica, all’interesse, al calcolo, agli elementi obiettivi.
Ma si fa subito strada la convinzione che la comunicazione pubblicitaria può ottenere risultati tanto più consistenti quanto più riesce a far leva su considerazioni e proposte non solo di ordine materiale, oggettivo, razionale, ma anche su spinte di natura psicologica, affettiva, emozionale. Sulla strada della valorizzazione degli appelli emotivi aggiunti a quelli razionali si pone un altro illustre protagonista della p. moderna, David Ogilvy, l’esponente più rappresentativo di un modulo interpretativo che esalta la valorizzazione dell’immagine della marca e del prodotto e che si fonda sul riconoscimento che il consumatore, in un mercato fortemente indifferenziato come l’attuale, in cui molti prodotti sono difficilmente distinguibili l’uno dall’altro a una prova obiettiva, è sempre più indotto ad acquistare l’immagine del prodotto più che il prodotto in quanto tale. Si affermano così i concetti di product image (immagine del prodotto) e di brand image (immagine della marca), come punti di riferimento centrali dell’azione persuasoria affidata alla p., che riecheggiano in termini moderni il sistema di differenziazione dei prodotti già adottato nell’Europa medievale (Immagine; Marca).
L’importanza dei fattori emotivi ottiene il massimo riconoscimento con l’affermarsi delle ricerche motivazionali. Studiosi come Pierre Martineau, Ernest Dichter e Louis Cheskin portano al successo questo tipo di ricerche, che mirano a porre in luce le motivazioni inconsce che influiscono sui comportamenti dei consumatori. Si afferma così un orientamento del marketing che considera ogni prodotto o servizio dal punto di vista del consumatore e che affida alla p. la funzione di caricare il prodotto di associazioni emotive, di attributi simbolici, ponendo in secondo piano la sua funzione meramente informativa.
È contro l’uso spregiudicato di queste ricerche che si scaglia con foga Vance Packard, il cui celebre libro I persuasori occulti marchierà indelebilmente al di là dei loro meriti e demeriti i pubblicitari di tutto il mondo. Successivamente la ricerca applicata alla p. ridimensionerà l’apporto della psicanalisi, soprattutto col riconoscimento che, accanto a indubitabili componenti strettamente individuali, in ogni atto umano, particolarmente nel campo dei consumi, sono sempre presenti componenti, più o meno rilevanti, di ordine sociale.
Più che una teoria, una buona base per delle validazioni empiriche, come la definisce lo stesso autore, è il modello messo a punto da G. Fabris, che indica le principali variabili che entrano in gioco nel processo operato dalla p. Esso si basa su due gruppi di fattori, distinti dalle loro iniziali: quattro ‘i’, quattro ‘c’, comprendenti, rispettivamente, l’impatto, l’interesse, l’informazione, l’identificazione, e poi la comprensione, la credibilità, la coerenza, la convinzione. Si tratta di variabili che non si dispongono in maniera sequenziale e si presentano fortemente interconnesse e con ampie aree di sovrapposizione. La verifica di questi fattori può costituire una linea-guida per la costruzione di messaggi pubblicitari efficaci, sottratta alla mera intuizione o all’estro creativo puro e semplice.
Il pubblicitario francese pubblicitario francese Jacques Séguéla, a sua volta, ha formulato una sorta di “teoria” secondo la quale la p. dovrebbe sempre esaltare il ‘fisico’ (cioè le caratteristiche oggettive) del prodotto, il suo ‘carattere’ (costituito dal suo valore ‘aggiunto’), e il suo ‘stile’ (la capacità di sedurre). Il risultato è la trasformazione di ogni prodotto in una ‘star’, analoga al grande attore dello star system hollywoodiano (da qui il nome di Star Strategy). Momento culminante di questo indirizzo è il trionfo dello spettacolo nella p. televisiva. Ma lo stesso Séguéla ha successivamente attenuato, se non sconfessato, l’esaltazione della spettacolarità pubblicitaria, non appena il vento della crisi economica ha cominciato a modificare atteggiamenti e comportamenti dei consumatori. La crescente difficoltà nel catturare l’attenzione provoca continuamente una ricerca affannosa di nuovi espedienti per rinvigorire la comunicazione commerciale, in nome dei marketing “non convenzionale” o “alternativo”, che vanno sotto nomi più o meno fantasiosi come “marketing virale”, “guerrilla marketing”, “buzzmarketing”, un insieme di tecniche che tendono anche a sfruttare gli stessi consumatori come passaparola di nomi o espressioni più o meno divertenti, capaci di insinuarsi come virus nel parlare comune . Maggiori ambizioni sembra avere il cosiddetto neuromarketing, basato sul ricorso alle neuroscienze e alle tecnologie mediche come la risonanza magnetica e l’elettroencefalogramma, per comprendere e sfruttare i meccanismi cerebrali stimolandoli al fine di provocare risposte in grado di agire su emozioni e associazioni mentali, consce o inconsce, facendo leva su tutti i sensi, più o meno contemporaneamente: non solo su vista e udito, ma anche su odorato, gusto e tatto. Si parla, per questo, anche di “marketing sensoriale”.
2.4. Dalla strategia di marketing alla campagna pubblicitaria.
Le ‘teorie’ e i ‘modelli’ di cui abbiamo parlato, anche i più semplici e intuitivi, pongono in varia misura in evidenza i principali momenti e fattori da considerare essenziali nella realizzazione della p. e quindi da adottare nel definire le strategie di comunicazione.
Per strategia di comunicazione s’intende l’insieme delle scelte e delle decisioni più importanti e interdipendenti relative agli obiettivi che la più ampia strategia di marketing affida alla p. e alle altre forme di comunicazione dell’impresa. Il marketing, invertendo la vecchia impostazione commerciale secondo cui l’impresa deve riuscire a vendere tutto ciò che è in grado di fabbricare, organizzando le vendite in modo adeguato, richiede all’impresa stessa di produrre ciò che può vendere partendo dalla valutazione dei bisogni, dei desideri, delle attese, delle richieste dei consumatori.
Marketing e vendite non devono quindi essere confusi, come avverte chiaramente Kotler, perché "la vendita è tutto ciò che l’impresa attua allo scopo di poter collocare sul mercato quanto essa produce. Il marketing è ciò che l’impresa fa onde poter decidere quali prodotti realizzare". La differenza tra marketing e vendite, scrive Kotler, "può essere espressa dalla differenza esistente tra il seminare e il raccogliere".
La strategia di marketing, oltre a definire l’obiettivo di mercato dell’impresa, a individuare i destinatari da coinvolgere (target group), a decidere il posizionamento del prodotto (scelta della "collocazione" merceologica ideale del prodotto nel mercato, in grado di differenziarlo rispetto a quelli concorrenti, alla quale corrisponde la strategia di comunicazione tendente a influenzare in tal senso i potenziali acquirenti e consumatori), stabilisce il marketing mix. È nell’ambito di quest’ultimo, come si è detto in precedenza, che si colloca l’obiettivo affidato alla comunicazione, e quindi alla p.
Per strategia pubblicitaria s’intende un insieme di scelte volte a stabilire come la p. deve conseguire il proprio obiettivo: come studiare il target group, quali messaggi indirizzargli, attraverso quali mezzi, in quale periodo di tempo, in base a quale stanziamento (budget). Dalla strategia di comunicazione derivano le indicazioni essenziali per la realizzazione della campagna pubblicitaria: un insieme articolato, coordinato e programmato di iniziative, il cui aspetto più caratteristico è costituito dall’idea creativa e dalla sua elaborazione attraverso i messaggi da diffondere mediante i mezzi prescelti (Creatività pubblicitaria). Generalmente la realizzazione delle campagne viene affidata dalle imprese a organizzazioni specializzate, le agenzie di pubblicità.
Gli obiettivi conseguibili dalla p. sono vari e talvolta non riguardano direttamente i prodotti o i servizi, ma globalmente le aziende: si parla in quest’ultimo caso di p. (o di campagna) istituzionale (corporate advertising), la cui influenza sulle vendite è ancor meno diretta rispetto alla p. di prodotto. L’influenza sul comportamento, oltre a dipendere anche da altri fattori, può talvolta partire da lontano per quanto riguarda la comunicazione: dalla semplice proposta di conoscenze, che via via alimentano la notorietà di un prodotto, di una marca, di un’impresa. Può accadere, d’altra parte, che la semplice informazione sia in grado di influenzare un comportamento. O che un messaggio pubblicitario particolarmente efficace incida in tempi brevi o brevissimi sulle scelte dei consumatori. Ma l’azione della p. è spesso destinata a progredire nel tempo, fornendo conoscenze, facendo in modo che esse vengano accolte e memorizzate, alimentando la notorietà dei prodotti e delle imprese, suscitando fenomeni di interesse, di apprezzamento, di simpatia, di fedeltà.
La definizione della strategia di comunicazione e l’impostazione della campagna pubblicitaria sono essenziali anche in funzione dell’accertamento dei risultati conseguiti. Valutare l’efficacia della p., peraltro, è spesso un’impresa difficile, perché è difficile isolare l’effetto dei suoi messaggi rispetto a quello degli altri fattori che possono intervenire sulle scelte dei consumatori. Solo una definizione precisa degli obiettivi affidati alla comunicazione consente, e sempre entro certi limiti, di valutare in quale misura essi sono stati raggiunti.
Dal momento che solo in determinati casi risulta possibile verificare l’efficacia della p. sulla base dei dati di vendita, appare dunque necessario fare riferimento alla capacità della p. di influenzare conoscenze, valutazioni, atteggiamenti, cioè le premesse ai comportamenti desiderati.
Anche a questo fine risultano essenziali le ricerche. Esse possono individuare il numero delle persone realmente raggiunte (dato indiretto o presunzione di efficacia), ma possono anche rilevare indici di percezione e di riconoscimento degli annunci diffusi, di ricordo degli annunci stessi o dei prodotti pubblicizzati, fino a fare emergere il grado di influenza complessiva conseguito: la notorietà del prodotto, della marca, dell’impresa, la loro immagine percepita, gli elementi dinamici suscitati rispetto a essi e, naturalmente, ove sufficiente, l’andamento delle vendite (anche con riferimento a quello dei prodotti concorrenti).
L’indice più usato per misurare l’efficacia della p. è il ricordo lasciato da un messaggio, da una campagna. Questa pratica, come afferma Kapferer, ha una sua base teorica: "in modo implicito ed esplicito, la maggior parte dei tecnici e degli operatori della comunicazione sostiene che la persistenza dell’atteggiamento indotto da una campagna dipende dalle tracce che quest’ultima lascia nella memoria dell’audience".
2.5. Il linguaggio pubblicitario.
La finalità fortemente persuasoria della p. influenza in modo determinante il suo linguaggio. A cominciare dalla brevità e dalla semplificazione, fino all’adozione di tutti gli elementi espressivi capaci di catturare l’attenzione dei destinatari (aspetto fàtico), i messaggi pubblicitari si servono di ogni espediente, argomentativo o emozionale, per conseguire efficacemente il loro scopo. La p. è quindi una forma di comunicazione altamente retorica; e della retorica sfrutta con sistematicità e con straordinaria abilità molte figure, in particolare l’iperbole, la metafora, la metonimia, l’antitesi, l’allitterazione, il paradosso.
Nella p. appare più intenso che in altre forme di comunicazione il ricorso all’uso contemporaneo di tutte o quasi le funzioni linguistiche individuate da Jakobson: infatti, accanto alla sempre presente funzione referenziale (almeno con il nome del prodotto o dell’impresa) e alla spesso prevalente funzione fàtica, vi ritroviamo quella emotiva e, in connessione a essa, quella poetica, mentre la funzione conativa costituisce sempre, direttamente o indirettamente, lo specifico pragmatico del messaggio. Tutt’al più resta in ombra, ma non sempre, la funzione metalinguistica.
Il linguaggio pubblicitario assume un aspetto del tutto particolare quando viene applicato alla creazione e al rafforzamento della marca, della quale si è già ricordato l’importante ruolo nella dinamica commerciale. La sua ‘costruzione’ richiede infatti una comunicazione capace di assumere e trasmettere elementi originali, di configurarsi nel tempo con caratteri coerenti, di inserire il prodotto all’interno di una costruzione di segni e di significati fortemente simbolica, in grado di promuovere quella ‘fidelizzazione’ che costituisce uno dei fattori di successo dell’impresa e uno dei fondamentali obiettivi a lungo termine della p.
Tipico del linguaggio pubblicitario ed espressione estrema della sua sintesi e della sua brevità è lo slogan, in cui emergono e si esaltano le libertà linguistiche della p., la sua capacità di sfruttare il ritmo, la rima e i ‘wellerismi’, cioè le espressioni che si rifanno a motti, proverbi, sentenze, sia di carattere scherzoso, sia di natura assertiva. Altrettanto tipici del linguaggio pubblicitario sono l’uso e la produzione di simboli, per la loro capacità di coinvolgere emotivamente oltre che di comunicare istantaneamente, di stabilire rapporti a forte valenza emotiva tra prodotti (e tra imprese) e consumatori.
Complessivamente, il linguaggio pubblicitario appare perennemente eufemico ed euforico: per raggiungere i loro obiettivi, i messaggi della p. tendono a creare stati d’animo e sensazioni di piacere, di ottimismo, di benessere e ricorrono quindi costantemente a forme, espressioni, rappresentazioni che attingono al bello, al divertente, al piacevole. E le forti preoccupazioni fàtiche danno luogo al frequente sfruttamento di elementi trasgressivi che accentuano il carattere invadente e aggressivo della comunicazione commerciale.
La storia della p. moderna è ricca di una molteplicità di stili espressivi, via via introdotti dai creativi che hanno lasciato le tracce più significative nel corso degli anni. Tra i pubblicitari più celebri ci limitiamo a menzionare William (Bill) Bernbach, autore di campagne rimaste famose, che per la prima volta hanno posto in risalto con grande evidenza l’importanza del modi di comunicare e non solo dei contenuti da diffondere; con lui, Theodore Mac Manus, Leo Burnett, David Ogilvy, Jacques Séguéla, Armando Testa. Molti dei creativi più famosi hanno dato vita ad agenzie di p. che da loro hanno preso il nome.
3. P. e media
3.1. I media come strumenti pubblicitari.Gli strumenti di comunicazione di massa costituiscono i canali ideali per la diffusione di messaggi il cui primo obiettivo è di raggiungere il pubblico più vasto possibile. I mass media non esauriscono l’aspetto strumentale della p. (si pensi al numero di pieghevoli e di altri stampati ‘minori’ diffusi in mille maniere, ma anche agli stand fieristici e ad altre forme di p. che utilizzano veicoli diversi dai mass media); ma ne costituiscono da sempre le vie diffusive fondamentali. Accanto ad essi si sono ormai affiancati da tempo i “new media” e si può dire che la “convergenza”, l’intreccio tra i diversi mezzi, stia definendo i nuovi orizzonti della pubblicità, giustificando l’ipotesi di un nuovo ciclo di sviluppo e l’affermazione di un rapporto personalizzato (marketing one-to-one) tra imprese e singoli consumatori come soluzione generalizzata del futuro.
I più importanti mezzi utilizzati dalla p. sono chiamati ‘classici’. Come abbiamo visto trattando degli investimenti, questi mezzi sono la stampa, le radio, la televisione, il cinema (nelle sale), la p. esterna (affissioni, altre forme) e, ormai da tempo anche internet. Storicamente l’alleanza tra p. e media risale alle prime inserzioni commerciali pubblicate sulla stampa. Questa alleanza ha avuto la sua consacrazione in termini sistematici con l’iniziativa dell’editore e giornalista francese Émile de Girardin di dare stabilmente spazio alle inserzioni pubblicitarie sul suo quotidiano La Presse nel 1836. Da allora il destino dei giornali e poi degli altri mezzi di comunicazione si è legato indissolubilmente a quello della p.
Inizialmente si è trattato di un rapporto di ‘convivenza’, pur avendo dato luogo a forti contestazioni sulla contaminazione dell’informazione da parte di messaggi mercantili: gli introiti delle inserzioni consentivano di abbassare il prezzo dei giornali (ma successivamente avrebbero addirittura costituito l’unica fonte di entrata delle emittenti radiofoniche e televisive commerciali) senza esercitare influenze sulla loro funzione primaria. Ma quando l’equilibrio tra i proventi delle vendite e gli introiti pubblicitari ha lasciato il posto al prevalere di questi ultimi, è iniziato un fenomeno di condizionamento dei media che ha finito per assumere dimensioni imprevedibili, innescando un processo di ‘connivenza’ a danno dell’autonomia dei media stessi, sempre più ridotti a veicolo di messaggi commerciali. Tanto che i messaggi pubblicitari appaiono chiaramente come una componente rilevante della comunicazione di massa, in parte mantenendo le loro caratteristiche distintive, in parte combinandosi più o meno occultamente all’interno degli altri contenuti diffusi dai media.
Molti ritengono, comunque, che le trasformazioni possibili dipenderanno soprattutto dalle capacita ‘creative’ che i diversi mezzi riusciranno a favorire, sia per quanto riguarda i contenuti, sia per ciò che concerne le modalità di presentazione dei messaggi pubblicitari.
Di fronte a possibili cambiamenti in grado di incidere sullo sviluppo della p. nel sistema complessivo dei media e dei suoi diversi comparti, vengono chiamate in causa anche la disciplina legislativa e la tutela (o meno) dei mezzi più deboli (problema, quest’ultimo, che già da tempo si pone per la stampa nei confronti della televisione); ma anche questioni etiche rilevanti, sia per ragioni di ‘trasparenza’ dei messaggi commerciali, sia per un ulteriore appesantimento dei condizionamenti della pubblicità sull’autonomia dei mezzi che ne diffondono i messaggi (vedi 4.3.).
3.2. La p. come finanziamento dei media.
Secondo i dati più recenti, la provenienza delle risorse per i principali mezzi di comunicazione vede le radio e le televisioni commerciali in testa, col 100%, tra i media che sono finanziati esclusivamente dalla p. La stampa continua invece a essere finanziata anche dai consumatori finali, ma con una tendenza a dipendere in misura crescente dagli introiti pubblicitari. Le emittenti radiotelevisive di servizio pubblico, a loro volta, sono in genere finanziate, oltre che dai canoni di abbonamento o da tasse, anche dalla p. L’unica eccezione è costituita dalla BBC, di cui sono però noti i tentativi di aprire le reti alla p. a causa dei crescenti costi di gestione.
Non mancano tuttavia esempi di giornali, periodici ed emittenti radiotelevisive, per quanto attestati su livelli diffusionali generalmente modesti, che rinunciano deliberatamente al finanziamento pubblicitario per non subirne i condizionamenti, diretti o indiretti, compresa la mera occupazione di spazi con contenuti estranei alle loro linee editoriali.
In generale, l’importanza assunta dal finanziamento pubblicitario ha finito per rendere indissolubile il rapporto tra mezzi di comunicazione e p. Ma questa funzione di sostegno economico non è stata priva di contraccolpi anche sulle sorti stesse dei vari mezzi. Particolare rilievo assume, specialmente in Italia, il disequilibrio degli investimenti pubblicitari sui diversi media. Mentre, da un lato, le imprese invocano la totale libertà di scelta dei media utili per le loro campagne pubblicitarie, dall’altro il fronte dei mezzi è caratterizzato da una situazione di aspra conflittualità tra la stampa e la televisione, a causa del forte divario tra le rispettive quote nella ripartizione degli introiti pubblicitari complessivi. Da un rapporto delle quote di mercato del 61,9% per la stampa e del 16,1% della televisione nel 1975, si è passati a un rapporto 39-54 a metà degli anni Novanta. Agli editori della carta stampata che lamentano questa anomalia rispetto a quanto accade nei principali Paesi stranieri (dove la quota televisiva non supera mediamente il 30-40%), ha già dato una prima risposta la Corte Costituzionale che, prima ancora dell’avvento della Tv commerciale, aveva invitato il legislatore a evitare, attraverso una adeguata limitazione della p., il pericolo "che la radiotelevisione, inaridendo una tradizionale fonte di finanziamento della libera stampa, rechi grave pregiudizio a una libertà che la Costituzione fa oggetto di energica tutela" (sentenza n. 225 del 1974).
Appare evidente che il problema, oltre che legislativo, è anche politico. Si tratta, in effetti, di conciliare gli interessi delle imprese con quelli dei media e, per quanto riguarda questi ultimi, con l’esigenza di garantire le sorti della stampa che appaiono fortemente minacciate dalla forza, anche pubblicitaria, della Tv. Più in generale, si profila il problema dell’impatto esercitato dalla p. sulla gestione dei media e sui contenuti da loro diffusi (Economia politica dei media).
3.3. Influenze della p. sull’autonomia dei media.
I condizionamenti che la p. può esercitare sui media, in ragione del finanziamento che concede a essi col pagamento degli spazi occupati, possono sostanzialmente configurarsi in quattro modi. In primo luogo come accordo tra inserzionisti ed editori (comprendendo naturalmente tra questi ultimi anche i responsabili dell’emittenza radiotelevisiva) per adeguamenti redazionali in cambio di investimenti pubblicitari: cioè in interventi selettivi sull’informazione sia in senso positivo (diffondere o enfatizzare notizie favorevoli), sia in senso negativo (ignorare o ridurre informazioni sfavorevoli).
Un secondo condizionamento è costituito dalle reazioni delle imprese che si ritengono danneggiate dalla pubblicazione di notizie che le riguardano: reazioni consistenti nel ritiro della loro p. come ritorsione immediata o successiva.
Il terzo condizionamento si è fortemente sviluppato negli ultimi anni e consiste nell’adozione di criteri editoriali fondati sull’adattamento dei contenuti alle ragioni dello sfruttamento pubblicitario dei media. Di questa forma sono espressioni tipiche le modificazioni nei palinsesti televisivi, non solo dell’emittenza commerciale, ma anche di quella pubblica.
Il quarto condizionamento, infine, è quello che porta al camuffamento della p., la cui forma più tipica è costituita dalla cosiddetta pubblicità redazionale. Fenomeno analogo è il c.d. product placement, fino a poco tempo fa incluso tra le forme di pubblicità “non trasparente” (e quindi vietato da leggi e codici deontologici), ma ora consentito in ambito cinematografico e televisivo.
Complessivamente si può osservare la crescente tendenza dei media a porsi come ‘cacciatori di teste’, cioè a mirare comunque alla cattura dei lettori, degli ascoltatori, degli spettatori, per esporli al contatto con i messaggi pubblicitari, diretti e indiretti.
Gli investimenti pubblicitari, come le vicende di "Tangentopoli" e i fenomeni di corruzioni successivamente emersi hanno contribuito a porre in evidenza, possono costituire anche una delle componenti delle faide politiche e dei giochi di potere quando le decisioni relative alla stipulazione di contratti pubblicitari con i media da parte di grandi investitori, pubblici e privati, diventano strumenti per favorire giornali o emittenti radiotelevisive, oppure interi gruppi editoriali o radiotelevisivi. Ma, più in generale, la p. appare come il punto di riferimento centrale dell’intero sistema dei media.
4. Aspetti socioculturali ed etici
4.1. L’influenza ideologica.La p., si è già detto, non mira a suscitare dubbi, vuole creare certezze. Ma quali certezze? Se si guarda alla p. nel suo insieme e non ai singoli messaggi soltanto, si deve ammettere che la prima certezza che la p. tende a infondere è che tutto si può (e si deve) avere, che il possesso dei beni pubblicizzati è fonte di piacere, di sicurezza, di riconoscimento sociale. Séguéla l’ha definita come "una illusione vitale": il paradiso artificiale che essa crea riesce ad alimentare il bisogno di sognare della gente e l’aiuta a vivere.
Sul fronte opposto, operatori sociali impegnati nel recupero dei tossicodipendenti considerano la p. in generale, e quella per l’alcol in particolare, addirittura l’anticamera della droga. La p., affermano, educa al tutto e subito, al possesso delle cose come valore supremo, al successo a ogni costo, provocando pericolosi sensi di frustrazione e di fallimento esistenziale in quanti non li conseguono.
D’altra parte, per sua natura, la p. tende a proporre solo l’aspetto buono dei prodotti e promuove anche il consumo di prodotti ‘a rischio’, come l’alcol, il tabacco e i giochi d’azzardo. Il mondo che la p. rappresenta è un mondo idilliaco, attraente, desiderabile. Non siamo dunque alle prese con uno ‘specchio’ della realtà, ma con una sua rappresentazione subordinata a esigenze di persuasione: quindi parziale, deformata, sostanzialmente falsa. E tuttavia, come si è detto, gioiosa e piacevole, e quindi fatalmente attraente e capace di influenzare, di incidere sulla mentalità, sulla scala dei valori. Essa finisce per esercitare una funzione fortemente ideologizzata, in cui dominano modelli di comportamento a senso unico, con tutto ciò che di condizionante ne può derivare, soprattutto sul pubblico dei minori. Una funzione, per dirla con Jean Baudrillard, che trasmette norme e valori fondamentali del vivere sociale.
Questa trasmissione di norme e di valori si compie anche attraverso la motivazione della desiderabilità di tutto ciò che viene mostrato: non solo i prodotti come tali, ma anche le situazioni fittizie che li accompagnano. Alla spinta a consumare che le è congeniale, la p. accosta così una spinta a vivere secondo regole che ubbidiscono solo all’esigenza di rendere allettanti tutte le sue proposte. Il classico saggio, già ricordato, di Richard W. Pollay, studioso di marketing, ha delineato il quadro degli effetti “non intenzionali” della pubblicità basato sui contributi di una significativa schiera di studiosi di scienze umane e sociali: la pubblicità rinforza selettivamente valori che possono essere comunicati facilmente e legati ai prodotti, promuove il materialismo come mezzo per raggiungere la felicità, favorisce la ricerca di status e rafforza stereotipi sociali, miopia, egoismo, eccessivo interesse per la sessualità e conformismo, provoca cinismo, insicurezza e scontento.
Anche nel Rapporto MacBride è stata posta in evidenza la "dipendenza crescente del consumatore dalla pubblicità", tale da creare "una mentalità commerciale in cui il consumo è fine a se stesso". La p., si legge ancora nel Rapporto, "tende a promuovere comportamenti e modelli di vita che esaltano l’acquisto e il consumo di beni a detrimento di altri valori".
La Chiesa Cattolica, che pure ha posto in luce, soprattutto nell’Istruzione pastorale Communio et progressio e, più ampiamente, nel successivo documento Etica nella pubblicità (emanato il 22.2.1997), i vantaggi che la p. consente di conseguire come strumento di sviluppo economico, ha espresso ripetutamente le sue preoccupazioni per i danni che la p. è in grado di provocare nell’ambito economico, politico, culturale, morale e religioso (Chiesa e comunicazione).
4.2. P. e minori.
Quando si affrontano i temi dell’impatto socioculturale della p. è naturale che si faccia riferimento, in modo del tutto particolare, ai minori. Si tratta di una fascia del pubblico praticamente sottoposta a tutte o quasi le più massicce proposte pubblicitarie, da quelle affissionistiche a quelle televisive che presenta caratteristiche di competenza cognitiva, di esperienza valutativa, di equilibrio affettivo in via di sviluppo nelle diverse fasi che vanno dalla fanciullezza verso l’età adulta. Le minori capacità critiche e di discernimento di bambini e ragazzi costituiscono motivo di prudenza per lo stesso mondo pubblicitario che nelle proprie norme deontologiche ha introdotto criteri prudenziali allo scopo di evitare che i messaggi pubblicitari possano danneggiarli psichicamente, moralmente o fisicamente (art. 11 del vigente Codice di autodisciplina della comunicazione commerciale).
Anche le leggi dello Stato, più recenti, recano disposizioni a tutela del pubblico dei minori. In linea generale il Decreto legislativo 2 agosto 2007, n. 145 sulla pubblicità ingannevole considera come tale anche quella che “in quanto suscettibile di raggiungere bambini e adolescenti, abusa della loro naturale credulità o mancanza di esperienza o che, impiegando bambini e adolescenti in messaggi pubblicitari […] abusa dei naturali sentimenti degli adulti per i più giovani”. Lo stesso Decreto considera ingannevole la pubblicità che può “minacciare la sicurezza” dei minori.
Per quanto riguarda in particolare la radio e la televisione, il Testo Unico della radiotelevisione (Decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177) vieta tutte le trasmissioni che “possano nuocere allo sviluppo fisico, psichico o morale dei minori” e recepisce il “Codice di autoregolamentazione Tv e minori” che “impegna le emittenti televisive a controllare i contenuti della pubblicità, dei trailer e dei promo dei programmi, e a non trasmettere pubblicità e autopromozioni che possano ledere l’armonico sviluppo della personalità dei minori p che possano costituire fonte di pericolo fisico o morale per i minori stessi …”.
L’esperienza dimostra che le norme riportate non sempre vengono applicate in modo da corrispondere realmente alle esigenze educative e formative di bambini e adolescenti. Anche per questo oltre che per i ritardi che sovente rendono inefficaci le varie forme di controllo appare necessario comprendere tra i compiti educativi della famiglia e della scuola opportuni interventi volti a collocare il fenomeno pubblicitario nei suoi giusti limiti, fornendo ai minori adeguati strumenti critici. Si tratta, in sintesi, di orientare i minori nei confronti delle distorsioni che la p. può produrre con i singoli messaggi e con il loro insieme.
4.3. Etica e deontologia.
Già nei paragrafi precedenti sono stati toccati alcuni aspetti della p. che rientrano a buon titolo nell’area dell’etica e della deontologia. Si rinvia, per una trattazione meno sommaria, al paragrafo riguardante la p. nella voce Deontologia della comunicazione. Ci limitiamo qui a ricordare che sul piano etico la p. è tenuta a tre doveri fondamentali sui quali, almeno a parole, si registra una sostanziale unanimità: non ingannare, non offendere, non arrecare danno a nessuno.
5. La p. non commerciale
Da tempo la tecnica pubblicitaria viene utilizzata, con opportuni adattamenti, anche da soggetti non economici, pubblici e privati, per influenzare comportamenti collettivi con finalità di varia natura.Sarà bene allora ricordare che per tecnica pubblicitaria si intende l’insieme di principi, norme, metodi e procedure che guidano l’ideazione, la realizzazione e la diffusione di messaggi che hanno come caratteristiche principali:
la natura deliberatamente persuasiva e le relative strategie comunicative;
la brevità, la semplicità, la sintesi;
la diffusione a pagamento attraverso qualsiasi mezzo di comunicazione utile, in particolare attraverso i mass media;
la ripetizione sistematica, in un periodo di tempo definito (nell’ambito di ‘campagne’).
Questa tecnica è utilizzabile per scopi di natura commerciale, ma anche per scopi non commerciali: sociali, politici, elettorali, pubblici, religiosi, ecc.
La forma più diffusa e più nota di p. non commerciale è la p. sociale, volta a creare e ad ampliare l’area del consenso su tematiche di interesse collettivo, promossa da soggetti pubblici o privati senza scopo di profitto e nell’interesse generale. In Italia sono divenute popolari le campagne sociali promosse da "Pubblicità Progresso", l’Istituto nato nei primi anni Settanta per iniziativa degli utenti e dei professionisti pubblicitari e dei mezzi di comunicazione. Tali campagne sono completamente a carico degli enti che aderiscono all’Istituto i quali, oltre che da apprezzabili motivazioni civili, sono mossi dall’intento di valorizzare la p. e di promuoverne l’immagine, e da quello, ancor più interessato, di favorire l’espansione della p. sociale stimolando l’iniziativa di enti pubblici e privati.
Accanto alla p. sociale si sono andate sviluppando altre forme di p. non commerciale, dall’advocacy alla p. politica o di partito, alla p. pubblica, a quella religiosa (vedi 5.1.). L’advocacy ha come obiettivo la promozione, il sostegno, l’appoggio a cause o idee intorno alle quali esiste una manifesta o latente divergenza di opinioni. Si tratta di una forma di comunicazione decisamente di parte, promossa da soggetti di varia natura, prevalentemente da associazioni di categoria, da lobbies, da organizzazioni imprenditoriali o sindacali, ecc. Intesa in senso ampio, essa comprenderebbe in pratica qualsiasi forma di p., se si eccettuano quella pubblica e quella sociale. In pratica, si intende come tale la comunicazione di parte a favore di singole questioni controverse che non hanno portata generale.
La p. politica o di partito si caratterizza non solo per i soggetti promotori, ma anche per la parzialità estrema che costituisce l’essenza dei suoi messaggi. "Oggetto della comunicazione non è una singola questione, come nell’advocacy, ma un programma e/o un’ideologia opposti ad altri. In realtà, attraverso la promozione di un simbolo o di un candidato, si richiamano una molteplicità e un complesso di issues, così generali e di largo orizzonte da risultare difficilmente argomentabili. Per conseguenza e paradossalmente questa pubblicità non commerciale tende allora a presentarsi con moduli simili a quelli della pubblicità commerciale, centrata su un marchio e uno slogan" (Gadotti, 1993).
A sua volta, la p. pubblica è promossa dallo Stato e da altri enti di natura pubblica per diffondere comunicazioni che riguardano i diritti e i doveri dei cittadini, per divulgare informazioni sulle proprie attività, per incentivare l’uso dei servizi pubblici.
In molti casi, anche per difficoltà o difformità definitorie, appare arduo distinguere una forma di p. non commerciale dall’altra: si pensi, ad esempio, alle contiguità tra p. sociale e p. pubblica o ai labili confini tra p. politica o di partito e propaganda, sia pure tenendo conto che quest’ultima si caratterizza per la sua finalità ideologica fino a sconfinare nel vero e proprio indottrinamento. Ma spesso si tratta di mere questioni terminologiche.
5.1. La p. religiosa.
Costituisce certamente una forma a sé stante di p. non commerciale, in ragione sia dei suoi soggetti promotori, sia delle sue finalità. Come tale si può infatti intendere l’utilizzazione della tecnica pubblicitaria da parte di un soggetto religioso per conseguire finalità direttamente o indirettamente di natura religiosa.
Quale forma particolare di comunicazione, anche la p. può contribuire, pur con i suoi limiti, al fondamentale compito di evangelizzazione della Chiesa. Nel Messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali del 1977, dedicata ai vantaggi, pericoli e responsabilità della p., Paolo VI ha auspicato "che le Istituzioni Cattoliche, nelle loro varie forme e secondo le specifiche attribuzioni, seguano con costante attenzione lo sviluppo delle tecniche moderne di pubblicità, e sappiano opportunamente avvalersene per diffondere il messaggio evangelico in modo rispondente alle attese dell’uomo contemporaneo". Questo pensiero è stato recepito nel già ricordato documento Etica nella pubblicità, in cui il ricorso a questa forma di comunicazione per finalità religiose è incluso tra i ‘benefici’ attribuiti alla p.
Il contributo della p. all’opera di evangelizzazione può esprimersi in modi diversi: per diffondere semplici indicazioni di supporto all’attività liturgica, catechetica, assistenziale; per sollecitare il contributo, anche economico, a favore delle iniziative caritative e di sostentamento del clero (fund raising); per promuovere opere specifiche della chiesa, quali ad esempio le missioni, l’Università cattolica, o le vocazioni; per proporre, isolatamente o nel quadro di veri e propri piani di evangelizzazione, i valori essenziali del messaggio cristiano.
In sintesi, avendo come riferimento gli obiettivi specifici, la p. religiosa può suddividersi in tre categorie:
informativa, quando rende note iniziative o attività di varia natura, riguardanti i fondamenti o la vita di fede;
promozionale, quando chiede adesione a una proposta liturgica, catechetica, caritativa, sovvenzionale, ecc.;
kerigmatica o parenetica, quando tende a inculturare valori, rivolgendosi, rispettivamente, a target di non credenti (kerigmatica) o a target di credenti (parenetica).
Per valutare l’utilità del ricorso alla p. per finalità religiose occorre tener conto, da un lato, delle sue caratteristiche; dall’altro, delle esigenze di una (nuova) evangelizzazione che non deve ignorare la disponibilità di strumenti e di metodi oggi esistente sia per rafforzare il vissuto di fede dei credenti, sia per raggiungere con un primo contatto chi ancora non crede. Il problema del ‘come evangelizzare’ resta sempre attuale, "perché i modi variano secondo le circostanze di tempo, di luogo, e di cultura, e lanciano pertanto una certa sfida alla nostra capacità di scoperta e di adattamento" (Esortazione apostolica di Paolo VI Evangelii Nuntiandi n. 40).
Nella ricerca dei "modi più adatti e più efficaci per comunicare il messaggio evangelico agli uomini del nostro tempo" (ibid.) rientra abitualmente e pacificamente il ricorso alla tecnica pubblicitaria per scopi informativi, a sostegno di iniziative religiose di varia natura (liturgiche, catechetiche, missionarie, ecc.). L’uso della p., viceversa, si presenta piuttosto problematico quando si tratta di sollecitare contributi economici a favore della Chiesa cercando di raggiungere un pubblico vasto e indeterminato (come accade con le campagne svolte attraverso i grandi strumenti di comunicazione): una Chiesa che chiede sovvenzioni con iniziative vistose rischia, ad esempio, di essere rimproverata per la mancata realizzazione di iniziative altrettanto consistenti volte a proporre il suo messaggio fondamentale di fede.
Ma ancor più problematico appare proprio il ricorso alla p. per scopi direttamente parenetici o kerigmatici, quando cioè l’esortazione (parénesi) o il primo annuncio (kérigma) assumono contenuti o propongono termini, immagini, valori che costituiscono una parte integrante della verità di fede.
È quest’ultimo aspetto che suscita le maggiori perplessità nel mondo ecclesiale, per quella diffidenza nei confronti della p. che deriva dal suo stretto legame col mercato e dalle sue esasperazioni consumistico-edonistiche. La tecnica pubblicitaria come tale, peraltro, non è esclusiva pertinenza dell’area economica. E, del resto, circolano in quantità esempi di ricorso alla p. per finalità direttamente o indirettamente religiose, ancorché contrassegnati da diffuse debolezze di realizzazione, quasi certamente dovute anche alla scarsa dimestichezza (frutto, a sua volta, di diffidenza) del mondo ecclesiale e delle stesse agenzie pubblicitarie con questa particolare utilizzazione delle tecniche di p.
Nel ricorso alla p. in ambito religioso, si tratta di adottare criteri di ideazione, di realizzazione e di diffusione che possono discostarsi anche notevolmente rispetto a quelli della p. commerciale, in funzione appunto delle sue specifiche finalità. A partire dal rispetto rigoroso di tutte le norme vigenti (che la p. commerciale nelle sue tendenze trasgressive viola frequentemente), fino alla compatibilità col contesto che ne caratterizza la diffusione (contiguità con altre forme di p. e, in generale, con i contenuti diffusi dai media) e alla congruenza dei caratteri propri della p. (brevità, ripetitività, intrusività, ecc.) con i messaggi di natura religiosa.
I messaggi pubblicitari possono lasciare tracce dove nessuna altra forma di comunicazione è in grado di penetrare. Ma l’utilizzazione non occasionale nell’ambito dell’evangelizzazione richiede una nuova strategia comunicativa con una attenta definizione degli obiettivi che la p. può raggiungere nel proporre col suo particolare linguaggio e con le sue peculiari modalità diffusive temi, iniziative, traguardi.
Ben si concilia col concetto di piano pastorale l’idea della campagna pubblicitaria, che indica un insieme di attività (di studio, di ideazione, di realizzazione, di diffusione, di controllo dei risultati) volte a raggiungere obiettivi determinati. Far conoscere, fare apprezzare, fare accogliere il valore di un piano pastorale (come di altre iniziative religiose), mantenere vivo l’interesse sul suo svolgimento, promuovere l’adesione ai suoi diversi momenti.
Quanto alla concreta realizzazione delle campagne di p. religiosa bisogna dire che solo superando pregiudizi e diffidenze paralizzanti e ponendo mano a una formazione professionale adeguata, si potrà rispondere in modo conveniente all’esigenza di includere organicamente la p. tra gli strumenti che possono rendere efficace, oggi, l’annuncio cristiano.
Si può aggiungere che la Chiesa è interessata alla p. non soltanto per la possibilità di utilizzare direttamente questa particolare tecnica di comunicazione, ma anche per i frequenti riferimenti a temi e figure religiose contenuti nei messaggi di carattere commerciale. Questo secondo aspetto, che sembra corrispondere a crescenti preferenze del pubblico, si traduce spesso in un discredito nei confronti di sacerdoti, di frati, suore, sacramenti, atti liturgici e di Dio stesso: un discredito per nulla attenuato anzi probabilmente reso più penetrante dal ricorso a registri comici. Ne consegue l’opportunità di dedicare particolare attenzione a questa prassi, che sinora nessuno ha studiato sistematicamente. E ciò non senza qualche responsabilità del mondo ecclesiale, che sembra sottovalutare la valenza negativa che caratterizza la proposta di veri e propri stereotipi deformati e deformanti. Né può bastare l’invocazione di interventi di autocontrollo, dimostratisi largamente insufficienti, come si può desumere dall’applicazione dell’art. 10 del Codice della comunicazione commerciale secondo il quale "La pubblicità non deve offendere le convinzioni morali, civili e religiose dei cittadini." (Deontologia della comunicazione. D. Deontologia della publicità).
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Zanacchi Adriano , Pubblicità , in Franco LEVER - Pier Cesare RIVOLTELLA - Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (18/11/2024).
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